
Appunti da Bergenby Davide Bernardini · September 29, 2017
Che bel mondiale si può dire? O meglio, che bella settimana iridata? Finalmente un po’ di colore, finalmente un po’ di calore, finalmente una manifestazione che rende onore al ciclismo. Paragonare Bergen a Doha mi sembra un esercizio da bar ma spero si sia capito che la tradizione europea ha ancora il suo fascino. La stagione, a volte soleggiata a volte bagnata, ha regalato quel pizzico d’incertezza in più.
Il resto lo ha fatto il percorso, movimentato ed uggioso come dev’essere quello di un mondiale, con un’unica pecca: Salmon Hill troppo distante dall’arrivo o, se preferite, troppo corta. Con un chilometro in più di salita da affrontare ad ogni tornata il percorso norvegese sarebbe stato davvero perfetto. Non posso fare a meno di notare che si sta diffondendo la tendenza a mio modestissimo parere pericolosa a voler rendere tutto una salita. Si aspettano i mondiali di Innsbruck come si aspetta il Natale da bambini. Il bello del mondiale è che, come la Sanremo, è una corsa aperta a tanti. Ridurre il tutto ad una salita mi sembra sgarbato ed insensato. Sia chiaro, qualche pendenza ci vuole, ma ricordo che tra il 6% e il 24% ci sono anche il 10%, 12%, 14%. Galibier, Tourmalet, Gavia, Pordoi, più o meno la storia del ciclismo. Invece di qualche grado percentuale in più si pedali con qualche rapporto in meno e si vedrà che la differenza la torneranno a fare anche le salite sopra citate. Mezzo punto in più per l’ambasciatore della manifestazione, Thor Hushovd: i campioni si rivedono sempre volentieri.
Allora è stato davvero tutto perfetto? Neanche per sogno, ovviamente. Continuo a non capire il senso della cronosquadre per team nella giornata inaugurale. In una rassegna per nazionali la logica vorrebbe che al via delle varie prove ci siano appunto le nazionali, dall’Italia all’Albania. Mi sfugge il perché di questa prova, non dico di rispolverare la cento chilometri che correvano i dilettanti fino al 1994 ma quantomeno di rendere la cronosquadre attuale un discorso tra nazioni e non tra team. Sembra che l’intenzione dei vertici sia appunto quella di eliminare questa prova a partire dal 2020, staremo a vedere. Rivedibile anche la possibilità che viene data alle nazionali di convocare atleti già professionisti e che rientrano nei dilettanti solo per motivi anagrafici. Per inciso, corridori come Cosnefroy, Albanese e Kämna non c’entrano nulla o quasi con i pari età. Stiamo parlando di corridori che hanno alle spalle un’intera stagione tra i prof, che sono abituati quindi ad altri ritmi e con un motore inevitabilmente più importante. Fa eccezione Cosnefroy, il francesino d’oro, che il primo contratto da professionista con l’AG2R l’ha firmato soltanto il primo agosto di quest’anno ma che ha già lasciato il segno tra i grandi vincendo al debutto al Grand Prix d’Isbergues. Non è una corsa per frilli, nel recentissimo passato l’hanno conquistata Degenkolb, Démare e Bouhanni. La maglia iridata è il sogno di una vita e sapere che questo ragazzo non la indosserà mai perché già professionista lascia amareggiati. Tra una prova e l’altra intanto i grandi capi si sono riuniti per eleggere il nuovo numero uno dell’UCI. David Lappartient demolisce Brian Cookson 37-8 e quindi è il nuovo presidente della federciclismo mondiale. “Ha vinto il mio progetto, grazie di cuore”, parole che sanno di poco ma che vanno sempre bene. Ai francesi il Tour non bastava più, il che non dev’essere per forza un male ma conviene tenere gli occhi aperti.
Campioni del mondo
L’Italia lasciamola momentaneamente da parte, merita qualche parola in più. Parliamo dell’Olanda, invece, protagonista assoluta con le vittorie della Sunweb nella cronosquadre, ancora con Dumoulin nella crono individuale e con la Blaak nella prova femminile delle élite. Un sistema che funziona, c’è poco da fare, e anche il futuro sembra in buone mani. La superiorità in campo femminile è disarmante, la selezione olandese può contare su almeno quattro capitani, mentre nel maschile c’è Dumoulin come faro di un movimento piuttosto interessante. L’olandesone di Maastricht negli ultimi cinque mesi è passato dallo status di outsider a quello di papabile dominatore. Il Tour non è il Giro, lo sanno anche i muri ormai, ma se dovesse migliorare ulteriormente in salita saranno dolori per tutti, Froome compreso. A cronometro non si discute, è un Apollo che fende il vento. Impressionante anche Johansen, il dominatore della prova juniores maschile, ma a costo di risultare scontati bisogna sottolineare che il più impressionante di tutti è ancora Sagan.
Mettiamo dei paletti altrimenti si rischia di farla fuori dal vaso. Gli eroi sono altri e difficilmente abitano il mondo dello sport, salvo rare eccezioni. Meglio non avventurarsi poi in inutili paragoni con i mostri sacri del passato più o meno recente, che il passato abbia il nome di Merckx, Contador o Boonen poco importa. Fare il tifo per Peter Sagan sembra facile e naturale, quasi immediato. Sembra, appunto: non è così per tutti. Chi si aspetta dal ciclismo profilo basso e facce lunghe, vede Sagan e storce il naso. Non lo capisce, fa fatica a sopportarlo. Non lo tollera. Non ha nulla a che vedere col ciclismo che fu. Chi si crede di essere per avere un’esultanza sempre nuova sul traguardo? Come si permette d’impennare sull’Alpe d’Huez? Col passato non c’entra nulla. E’ un movimento di rottura. Peter Sagan è avanguardia. Non pensa alla storia, si limita a scriverla. E’ un corpo alieno nel gruppo, come Merckx, come Fignon, come Bugno, come Pantani. Personaggi unici, intangibili, senza tempo. Peter Sagan è l’anello di congiunzione tra un’epoca che non gli appartiene e un’altra indefinita, senza contorni, che probabilmente non arriverà mai. Non è antico né moderno: è diverso, della diversità che fa bene, che colora, che stupisce. E’ una primavera continua, una certezza granitica in una marea di dubbi. Ha le sfumature d’una tavolozza e l’efficacia di un boia, anche se è buono e talvolta ingenuo come l’Idiota di Dostoevskij. La pressione? “Non la sento”, e i tuoi colleghi che non collaborano mai con te? “Sono sempre davanti, sono giovane e bello.
E’ il ciclismo, va bene così”. Che un essere umano del genere fosse destinato a lasciare un segno piuttosto importante del suo passaggio su questa terra era facile pronosticarlo. Per farlo ha scelto il ciclismo, anche se a volte si ha l’impressione che gli vada stretto. Dunque Peter Sagan è imbattibile? Attualmente su percorsi del genere sì, è un dato di fatto. Si poteva fare di più per isolarlo, staccarlo e farlo fuori dalla corsa per loro? Sicuramente ma non dimentichiamoci che di attacchi da rintuzzare e distacchi da ricucire ce ne sono stati eccome. Sagan è stato forte, scaltro e lucido. Ha sfruttato il lavoro altrui e non potrebbe essere altrimenti e ha saputo gestire i momenti di difficoltà che ha avuto nelle ultime battute di gara. Se la stoccata di Alaphilippe fosse arrivata prima e possibilmente con qualche altro pezzo grosso che andava dietro al francese, dubito che Sagan potesse ricucire o rientrare sui primi ma ripeto, vietato pensare che la vittoria dello slovacco sia frutto della fortuna o del caso.
Gli azzurri
Se c’è una nazionale che può rientrare a casa col sorriso sulle labbra, quella deve essere la nostra. Qualche rammarico c’è eccome ma non bisogna dimenticare quello che è stato fatto soprattutto con i giovani e col femminile. La Pirrone, insieme a Sagan e Dumoulin, è la protagonista di questa settimana. Idem per la Paternoster che aveva una gamba che le scappava ma che ha saputo mettere le ambizioni personali da parte e difendere alla perfezione l’azione della compagna. Benino anche tra le élite, con una stoica Cecchini che chiude decima nonostante una caduta. Con la Balsamo e la Longo Borghini senza intoppi sarebbe stata un’altra corsa. Inossidabile la Guderzo. Il futuro è donna. Salvoldi invece è anche passato e presente: 207 medaglie dal 2001 a oggi, una leggenda. Il futuro è anche Johansen, basta fare il suo nome per mettere in risalto le medaglie d’argento e bronzo firmate Rastelli e Gazzoli tra gli juniores.
Eccoci arrivati ai professionisti, e qui il solito de profundis. Nella cronometro individuale era impossibile far meglio e Moscon è veramente impressionante. Un motore così potente e così duttile non si vedeva da anni, nonostante la giovane età è sicuramente uno dei primi sei o sette del gruppo. Per quanto mi riguarda era difficile aspettarsi di più anche dalla prova su strada ma evidentemente diversi compaesani non sono dello stesso avviso. Ora, partendo dal presupposto che il rispetto per qualsiasi corridore si faccia il culo su una bici da corsa c’è e sempre ci sarà, mi sembra alquanto azzardato pensare ad un Trentin o ad un Colbrelli che anticipa Sagan, Van Avermaet, Matthews, Kristoff e compagnia bella in un mondiale e per di più su un percorso del genere. Cosa avrebbe dovuto fare l’Italia? Spaccare la corsa a cinquanta dall’arrivo? Bene, ci sto. Con chi? Ulissi? Bettiol? L’Italia, non potendo contare né su un capitano unico né tantomeno su uno dei favoriti di giornata, poteva soltanto saltare sulle ruote di tutti come ha fatto e tentare il tutto per tutto sull’ultimo passaggio a Salmon Hill come alla fine ha fatto. Più che inserirsi in ogni tentativo di fuga, ricucire eventuali situazioni pericolose e provare qualcosa a dieci chilometri scarsi dall’arrivo, cosa potevano fare gli azzurri? Hanno anche portato Trentin, alla fine il nostro vero capitano, a giocarsi l’oro in volata. Le nazionali che dovevano fare di più erano altre, Belgio e Olanda su tutte. E’ difficile pensare di vincere un mondiale quando in primavera i nostri raccolgono piazzamenti se tutto va bene. Soffermiaoci sul podio, se proprio vogliamo fare le cose per bene: Sagan, Kristoff, Matthews, i tre favoriti della vigilia. E puntuali, ogni settembre, si tirano in ballo Martini e Ballerini e com’era bella l’Italia quando c’erano loro.
Sia chiaro, due così bisognerebbe sempre averli accanto ché tanto qualcosa di giusto da dire ce l’hanno sempre, mi perdonerete però se mi azzardo a dire che con i vari Moser, Saronni, Argentin, Bugno, Cipollini e Bettini le carte in tavola erano diverse. A me basta aver visto che ognuno dei nostri ha dato l’anima per onorare la maglia e per cercare il risultato, punto e basta. Essere degli ottimi corridori e non dei fuoriclasse non mi sembra una colpa. Converrebbe forse mettersi l’anima in pace consapevoli che questa è la nostra attuale dimensione. Se ci fosse stato Nibali? Fantaciclismo, siamo nel regno dell’ipotetico, magari esplodeva ulteriormente la corsa o magari no. E non vorrei essere il buon Cassani che per mesi e mesi dovrà chiedere scusa ad ogni ora per aver trainato Moscon per due o trecento metri. Che gran paese che è l’Italia. Al prossimo mondiale manca un anno ma nella testa e nel cuore di molti la corsa all’iride è già ricominciata.