
Appunti dalla Vueltaby Davide Bernardini · September 13, 2017
Madrid, come Parigi, è crocevia. E, detto tra di noi, se anche il Giro d’Italia prendesse la splendida abitudine di terminare a Roma ne saremmo felici. Anche se la Vuelta arriva nel finale di stagione, guai a pensare che non sia portatrice di verità e indicazioni per le gare che mancano e per la prossima stagione. Nel giorno dell’addio di Contador (un gigante, ancora non possiamo renderci conto di quanto realmente ci mancherà) trovano la loro consacrazione Trentin (parziale) e Froome (definitiva), senza dimenticare i nomi nuovi dal lotto delle fughe e le sorprese, non sempre positive, della classifica generale. La Vuelta conferma ancora una volta la nomea di grande giro più spettacolare e colorato della stagione. È tempo di riflessioni spagnole.
Fughe e dintorni
Chi trova la fuga trova un tesoro, potremmo dire parafrasando il Siracide biblico. Se alle ventuno tappe in programma sottraiamo le due cronometro, rimangono diciannove frazioni in linea. Ecco, di queste diciannove tappe addirittura dieci, più della metà, sono state conquistate da un membro della fuga di giornata. In questo nuovo stagno sguazza alla grande la Lotto Soudal, che non avendo un uomo per la generale e con un Greipel in fase calante ripone tutte le sue speranze di vittoria negli attacchi da lontano. Bene Armée, con De Gendt ormai luminare in materia, ma il nome nuovo è quello di Tomasz Marczynski, che alla Vuelta aveva già fatto discretamente bene concludendo dodicesimo nel 2012. Majka riscatta parzialmente una stagione pressoché fallimentare con la bella vittoria a Sierra de La Pandera, mentre il successo di Alaphilippe a Xorret de Catí segnala il ritorno del francese ad alti livelli dopo lo sfortunato infortunio al ginocchio rimediato al Giro dei Paesi Baschi che gli aveva impedito partecipare alle classiche delle Ardenne (il suo pane) e al Tour de France. Il futuro è suo, il mondiale di Bergen chissà. Denifl a Los Machucos conquista una vittoria che vale una carriera, Lutsenko ad Alcossebre idem e potrebbe essere uno degli attaccanti del futuro. Finalmente arriva un’affermazione pesante per Mohoric, che da giovanissimo aveva incantato il mondo e che nelle ultime stagioni lo stava facendo invece ricredere. Deve ancora compiere ventitré anni, vedremo se sarà stato solo un fuoco di paglia o meno. Bene anche Mas e Soler, che in Spagna indicano come il futuro delle corse a tappe: non vincono ma destano una buonissima impressione. Va peggio invece a Fraile, De Marchi e Rui Costa, che attaccano a ripetizione senza portare a casa niente. Da corridori e curriculum del genere era lecito aspettarsi almeno un successo di tappa. Un bravo a Villella che vince la classifica dei gran premi della montagna. Buon corridore che passa spesso sottotraccia ma che ha già ottenuto qualche risultato e piazzamento di rilievo, ma per favore non chiamatelo il miglior scalatore della Vuelta. Ha vinto la maglia con merito, coraggio e furbizia ed è un risultato di spessore e di cui andar fieri, ma essere il miglior scalatore di una grande corsa a tappe è un’altra cosa. Anche Trentin nelle fughe ci si è buttato eccome riuscendo anche a capitalizzarne una, ma il trentino ha stupito tout court. Ha sfruttato come meglio non avrebbe potuto lo stato di forma di cui godeva (e godremmo anche noi se questo picco riuscisse a portarlo fino al 24 settembre) e l’assenza di sprinter di prim’ordine. Dopo gli exploit di Gaviria al Giro d’Italia e di Kittel al Tour de France, ne arriva un altro col tuttofare trentino. Quattro tappe vinte in scioltezza e al termine di un gioco di squadra perfetto. Questo Trentin lo conoscevamo già, aveva già vinto al Giro e al Tour e nelle classiche del Nord risultava sempre uno dei gregari migliori. Alla Orica gli hanno fatto capire che il suo ruolo sarà quello di finalizzare il lavoro di squadra quindi lo aspettiamo a Sanremo, sui muri del Fiandre e perché no, anche nel velodromo di Roubaix, anche se nell’Inferno del Nord non ha mai brillato. Questa iniezione di fiducia era quello che gli ci voleva, per la prove del nove dovremo aspettare la prossima primavera. Poco da dire per quanto riguarda le altre ruote veloci. Van Asbroeck e Kragh Andersen raccolgono qualche piazzamento e per i corridori che sono adesso va più che bene, qualcosa di più forse poteva farlo Lobato che non va oltre il secondo posto nella volata di Tarragona. Dopo il quarto posto alla Sanremo del 2014 sembrava potersi togliere delle soddisfazioni, ad oggi pochine purtroppo. Peccato invece per Rojas, l’esperto corridore spagnolo della Movistar che sale per ben tre volte sul podio e mai sul gradino più alto. Male invece Sacha Modolo, che come Trentin avrebbe dovuto sfruttare l’assenza dei velocisti più forti per trovare qualche successo importante. Da lui ci si aspettava qualcosa di più specialmente dopo le due vittorie di tappa al Giro del 2015 ma nelle ultime due stagioni sono arrivati pochi centri e non particolarmente prestigiosi.

Considerazioni sparse
La Vuelta, l’abbiamo già detto, è diventato ormai l’appuntamento più spettacolare e colorato della stagione. Il Giro d’Italia rischia addirittura di diventare la terza grande corsa a tappe per importanza mentre il Tour de France riesce a mantenere il suo primato un po’ per i soldi che girano da quelle parti e un po’ perché il Tour rimane sempre il Tour, l’evento ciclistico più incredibile del mondo. La Vuelta gode senz’altro di un calendario favorevole. Chi saluta i Campi Elisi in buona forma può puntare a far bene anche in Spagna, stesso discorso per chi invece alla Grande Boucle ha toppato e decide di correre la Vuelta per riscattarsi. Un po’ meno elegante è chi invece sfrutta la corsa a tappe spagnola, o almeno la prima parte di essa, per preparare al meglio il mondiale che incombe. Insomma, di riffa o di raffa la corsa spagnola nelle ultime stagioni garantisce un buon numero di campioni alla partenza. Per chi ha nel Tour de France il suo obiettivo principale, il Giro d’Italia rappresenta un pensiero non dà poco. Può dare quella iniezione di fiducia decisiva per far bene anche in Francia come può appesantire le gambe e rovinare gran parte della stagione. La doppietta Tour-Vuelta è senz’altro impegnativa ed onorevole, anche per chi la corre senza dover vincere a tutti i costi, ma la Giro-Tour rimane la più grande perché richiede una profonda conoscenza del ciclismo e di se stessi e un coraggio che soltanto in pochi possono vantare. Un altro aspetto che secondo me merita di essere approfondito è quello del disegno delle tappe. Che il profilo complessivo della corsa sia frizzante è sotto gli occhi di tutti: gran parte delle frazioni aperte a diverse soluzioni, salite disseminate qua e là per propiziare imboscate e colpi di mano (pedale, pardon) e pochissimo spazio riservato alle volate. Un’osservazione però mi piacerebbe farla. Tutte queste rampe di garage al 20% non le capisco. Mi spiego meglio. Che la maggior parte dei corridori del gruppo sia poco incline al rischiare da lontano è indubbio, ma se per creare spettacolo siamo arrivati al punto in cui servono per forza pendenze del genere, forse conviene fermarsi un attimo e prendere in considerazione l’idea di imboccare altre strade. Salite come lo Zoncolan e l’Angliru dovrebbero essere l’eccezione e qui mi sembra si stia cercando di renderle la norma. Due numeri per non parlare a vanvera. Contador scala il mostro impiegandoci tre minuti in più rispetto al record di Heras. Forse, e dico forse, gira meno roba. Magari è un segnale, magari è un abbaglio. Torniamo al percorso. Le difficoltà che propone l’Angliru le conosciamo tutti. La tappa che pochi giorni fa lo ha affrontato è stata senza dubbio piacevole e interessante (tranne la vittoria dello spagnolo nulla di trascendentale, sia chiaro), eppure i distacchi latitavano. Kelderman, buon corridore e nulla più, arriva ottavo a un minuto e dieci. Bardet, lontanissimo in classifica dai primi e dalla miglior condizione, è nono a nemmeno un minuto e mezzo. Pellizzotti, che in salita è sempre andato forte ma che di mestiere fa il gregario e che compirà quarant’anni a gennaio, arriva quinto a cinquanta secondi. Stesso discorso per l’arrivo in salita sul Los Machucos: distacchi normalissimi, si parlava di un Froome in crisi che alla fine prende solo quaranta secondi da Nibali. Magari mi sbaglio, ma se nel ciclismo del 2017 non esistono più i distacchi sostanziosi non credo sia colpa delle salite o delle pendenze, che sono le stesse da decenni. Per inciso, un Pordoi fatto senza guardare cosa dice il santo computerino e magari con un rapporto si agile ma che non sia un frullatore (niente contro Froome, lui pedala agile ma anche gli altri non scherzano) farebbe più danni di un Angliru a queste condizioni. Nessuno sostiene che si debba tornare ai giorni di Coppi e Bartali, anzi, si fa il tifo invece perché il ciclismo resti uno sport spettacolare e d’intuizione nonostante sia passato tutto questo tempo. Per dirla alla Pasolini, mi voglio rovinare, è giusto credere nel progresso ma personalmente faccio fatica a credere in questo sviluppo. Per chi ha interessi in tutto questo è senza dubbio un grande sviluppo, per noi che stiamo vivendo un ciclismo nettamente più livellato (verso l’alto, per l’amor di dio, ma pur sempre esageratamente livellato) e spesso noioso un po’ meno. Siamo nell’epoca in cui tutto è giustificato e quindi non c’è da stupirsi se qualcuno dà ragione a chi difende il quinto posto piuttosto che attaccare e conquistare il quarto. Questo non mi sta bene, allora si dica chiaro e tondo che il ciclismo non è più uno sport ma un business. Le soluzioni ci sono ma scontenterebbero inevitabilmente una bella fetta di sponsor e investitori. Limitare la tecnologia agli allenamenti, ad esempio, e in corsa comportarsi come si faceva fino a non molti anni fa. Se arriva una crisi devi essere bravo a gestirla, se non è giornata crolli, se limiti i danni vuol dire che sei stato bravo e sei rimasto calmo e che non è merito del rapporto agile che ti ha portato all’arrivo, se parte una fuga devi essere in grado di fare i conti e se sbagli questo è il ciclismo, se dio vuole. Un’altra strada ancora potrebbe essere quella di utilizzare la tecnologia già presente con un po’ più di senno. Ben venga la radiolina se serve a comunicare un restringimento di carreggiata o un ostacolo da evitare, ma che si debba utilizzare per dire ad un corridore quando attaccare o quando rialzarsi, be’, fate voi. Se si continua di questo passo, salite come Zoncolan e Angliru diventeranno normali, routine, e si dovrà andare a cercare qualcosa di ancora più improbabile. L’impresa non si può fare tutti i giorni, sacrosanto, e oltre allo spettacolo ci sono gli interessi di chi investe, di chi dirige e di chi corre da tutelare, ci mancherebbe. E che si lascino stare le biciclette di cent’anni fa, le strade sterrate e tappe infinite di trecentocinquanta chilometri, fanno parte di un passato da ricordare ma non da rievocare, si può fare benissimo con quel che abbiamo oggi. Ma che i quaranta secondi di Froome a Los Machucos vengano interpretati come una crisi, questo no.

Dove osano le aquile
La classifica generale ha dispensato certezze, soprese e delusioni in egual maniera. Contador ha corso col piglio del campione ed è apparso molto più solido ed efficace rispetto agli ultimi grandi giri ai quali ha preso parte. Rendimento altalenante: in alcune giornate era il più forte, in altre ha perso le ruote dei migliori troppo presto. Anche se non avesse perso quei due minuti e mezzo nella tappa di Andorra la Vella non credo che fosse in grado di competere per la vittoria con Froome nell’arco delle tre settimane. E se non avesse avuto quel ritardo in classifica non lo avrebbero certamente lasciato andar via praticamente tutti i giorni. Zakarin sale finalmente sul podio di un grande giro e lo fa con merito. Ha detto che vuole migliorarsi ma sappia che migliorare un terzo posto significa vincere. E’ senza dubbio un bel corridore ma al pari dei vari Bardet, Uran, Chaves e gli Yates non sembra ancora in grado di spodestare Froome, Quintana e Nibali dal gradino più alto. Aru è l’unico che viaggia tra prima e seconda classe. In salita è uno dei primi cinque al mondo e l’ha dimostrato svariate volte nel corso delle ultime stagioni ma sembra mancargli ancora qualcosa per competere con regolarità con i più grandi. Gli ultimi giorni di Vuelta fanno testo fino ad un certo punto. Vederlo così in difficoltà dispiace, c’è poco da fare, ma se si pensa che fino a giugno il 2017 del sardo sembrava ormai da buttare c’è comunque di che rallegrarsi: maglia di campione italiano, maglia gialla indossata al Tour con una vittoria di tappa e quinto posto nella generale, e più in generale tanta grinta dopo un inizio di stagione traumatico con l’infortunio al ginocchio, la morte di Scarponi e l’obbligo di rinunciare al Giro d’Italia. Quello dell’Astana non è un ambiente facile, tanto dà e tanto esige. A Fabio serve serenità, tranquillità e un gruppo possibilmente italiano dal quale ripartire. Chi brilla finalmente in casa Vinokurov è Miguel Ángel López. Compirà ventiquattro anni a febbraio ma sa già come si vince. L’anno scorso fece suo il Giro di Svizzera e arrivò alla Vuelta per mettersi in luce ma cadde nel finale della terza tappa rompendosi tre denti e addio sogni di gloria. Quest’anno è tornato ancora più carico e decisamente meno sfortunato e la sua presenza non è passata inosservata: maglia bianca di miglior giovane, due tappe d’alta montagna e un ottavo posto finale che è solo il punto di partenza nella carriera di questo giovane che ha nelle gambe il potenziale per diventare il miglior scalatore al mondo. Kruijswijk e Van Garderen gli eterni piazzati, la sorpresa assoluta è invece Michael Woods. Arriva alla bici dopo i venticinque anni e in un primo momento la usa soltanto per fare riabilitazione in seguito ad una frattura ad un piede. Viene dall’atletica ma non è di passaggio. Nel ciclismo ci resta eccome. Ad ottobre compirà trentuno anni ed è difficile capire dove può arrivare un corridore del genere. I numeri ce li ha: settimo nella generale della corsa a tappe spagnola, spesso davanti nelle tappe più dure, nono alla Liegi 2017, secondo alla Milano-Torino dello scorso anno. Fenomeno a trent’anni no, ma se la sua maturazione si è compiuta soltanto in questa stagione ha ancora qualche anno buono davanti per centrare risultati di prestigio. Nelle corse dure dovremo imparare a considerarlo un outsider di lusso. Dagli Yates non ci si aspettava nulla di particolare dopo le fatiche di Giro e Tour ed era oggettivamente difficile aspettarsi di più anche da Chaves. Nella prima parte di Vuelta sembra l’unico in grado di poter seguire Froome ma alla lunga salta e scompare dalle prime posizioni della generale. Stesso discorso fatto per Aru: la stagione era nata male e nel ciclismo di oggi perdere qualche mese significa dover correre di rimessa per tutto l’anno. Lo aspettiamo sicuramente per la prossima stagione e perché no, anche al Lombardia. Il campione in carica è lui. Meintjes, oltre ad essere inesistente come al solito, va anche più piano del solito e chiude dodicesimo. Delude anche Majka che quantomeno conquista un successo di tappa, sfortunato invece de la Cruz che dopo aver passato gran parte della Vuelta nei primi dieci è costretto a ritirarsi nella tappa dell’Angliru in seguito ad una caduta. Male anche Bardet ma era auspicabile. Da un corridore che a quasi ventisette anni non ha mai disputato né Giro né Vuelta non ci si poteva aspettare molto. Al Tour era apparso più spento rispetto alle precedenti edizioni, alla Vuelta non fa altro che confermare questo stato di forma precario. Gli manca il successo pesante che possa aiutarlo a sbloccarsi definitivamente. Chiude ad oltre mezz’ora da Froome: non gli si chiedeva niente di speciale ma trentuno minuti sono comunque tanti. Kelderman chiude quarto, un buonissimo risultato per l’olandese che fino ad ora non ha vinto praticamente niente. Vedremo se saprà ripetersi, la mia impressione è che difficilmente farà meglio dei vari Van Garderen, Kruijswijk e Meintjes. Un discorso più approfondito lo merita Nibali. Il siciliano è l’unico, vero avversario di Chris Froome. Quando le gambe glielo consentono, ovvero nella maggior parte delle tappe più difficili, attacca il britannico nella speranza di distanziarlo. Nonostante il divario tra la sua squadra e il Team Sky, Nibali non ha paura di mettere davanti i suoi uomini a fare l’andatura (commovente Pellizzotti, fa meglio di tanti capitani). Chiude secondo nella generale con un successo di tappa, è un peccato non averlo visto all’attacco sull’Angliru ma evidentemente quello a cui abbiamo assistito era il massimo che lo Squalo quel giorno poteva fare. Nibali deve fare i conti con questa sorta di autorazzismo che affligge da sempre lo sport italiano. Senza un motivo apparente, ai campioni nostrani si preferiscono nella migliore delle ipotesi i fenomeni stranieri e nella peggiore eterni piazzati che fino ad oggi hanno conquistato un’unghia di quello che ha vinto Nibali. E attenzione, sia chiaro, non si sta parlando di una semplice questione di gusti. Può darsi che un campione possa rimanere indifferente o indigesto o che gli vengano preferiti dei nomi meno altisonanti (quello che succede a me con De Marchi, Boasson Hagen, De Gendt e Calmejane, prendetevi il resto del gruppo ma almeno loro lasciatemeli). Ma da qui ad arrivare a sostenere che Nibali sia un corridore normale, questo no. Non sta in piedi. Il tifoso italiano ha delle serie difficoltà nel rapportarsi con gli atleti di punta dello sport che segue e questo è risaputo. Però non si possono sentire quelli che reputano interessanti corridori come Bardet, Pinot, Zakarin, Jungels e Dumoulin e poi hanno il coraggio di giudicare Nibali un corridore normalissimo. Se Nibali fosse la normalità immaginate il livello che avrebbe raggiunto il ciclismo. Probabilmente rimane indigesto perché soltanto in rare occasioni ha vinto dominando e, per molti, è ingiusto che un corridore abbia il palmarès di Nibali se non riesce ad imporre sempre la sua legge. Il siciliano non è un dominatore. Lo è stato a sprazzi, come al Giro del 2013 e al Tour del 2014, ma non nasce come autentico mattatore. Ci sembra che comunque abbia ovviato piuttosto bene a questa mancanza. È completo, coraggioso, scaltro e ha la vittoria nel sangue. Chi continua a paragonarlo a Froome o Contador non ha evidentemente niente di meglio a cui pensare, data l’inutilità storica e ormai appurata del metodo paragone. Si tira in ballo con una costanza stucchevole l’attaccare in continuazione, il cercare l’impresa. Pantani, che di imprese se ne intendeva, ne avrà fatte quattro o cinque in tutta la carriera. E, dato fondamentale, era di gran lunga lo scalatore più forte al mondo. Se in salita fosse andato come Zakarin per dirne uno, tutte quelle azioni che lo hanno reso immortale non le avremmo mai viste. L’impresa non si può fare tutti i giorni e non si può nemmeno attaccare tutti i giorni. Merckx attaccava spesso perché aveva una cilindrata superiore che glielo permetteva ma se un giorno non aveva gamba stava a ruota o si staccava, semplice. E poi evitiamo questi benedetti paragoni. È inutile paragonare ogni scalatore a Pantani e Contador e ogni velocista a Cipollini e Cavendish, si può essere lo stesso dei campioni anche se si è vinto qualche corsa in meno rispetto ai grandissimi. Se si prendesse come riferimento Merckx perfino Pantani risulterebbe un buon corridore e nulla più.

Froome scrive la storia
Chris Froome vince la Vuelta di Spagna 2017. Nulla di nuovo all’orizzonte. Di analogie col successo al Tour de France ce ne sono tante: una squadra semplicemente troppo forte, un Froome solido e scaltro e una superiorità netta dello stesso nelle prove contro il tempo. Guardando Sky e Froome sembra di risentire le parole di Echávarri e Indurain ai tempi della Banesto: “A noi più che fare spettacolo interessa vincere”. La Sky non uccide il ciclismo, fa soltanto quello che il budget di cui dispone gli permette di fare, niente di più e niente di meno. Al massimo dovrebbe essere qualcun altro a tutelare la salute di questo sport, limitando lo strapotere economico del team britannico. Poels ha fatto il Landa della situazione, il resto lo ha fatto Froome: ha vinto due tappe, ha limitato i danni da Nibali nella tappa del Los Machucos e ha centrato la doppietta Tour-Vuelta. La forma delle scorse stagioni non l’ha mai palesata anche se nella corsa a tappe spagnola è apparso più in palla che al Tour. Quel che ha perso in esplosività, Froome sembra averlo guadagnato in esperienza, tranquillità e solidità. L’ultima doppietta, Giro-Vuelta 2008, era firmata Contador. Era dal 1978 e da Bernard Hinault che un corridore non metteva insieme Tour e Vuelta nella stessa stagione. Froome riceverà le stesse, noiosissime e sterili critiche che lo accompagnano ormai da anni. Ogni volta che vince sembra la prima, da tanto scalpore desta. Siamo alle solite. E come sempre non si pesano le parole. Non è che i gregari di Froome sono diventati forti quando sono arrivati alla Sky: è la Sky che li ha presi come gregari quando in realtà erano capitani nelle loro rispettive squadre. Poels, per dirne uno, era uno degli atleti di punta della Vacansoleil già nel 2010 e 2011. Nieve, per dirne un altro, non si è improvvisato scalatore da quando è alla Sky: nel 2010 vinse una tappa alla Vuelta e al Giro del 2011 fece sua la frazione con arrivo al Gardeccia, una delle più dure degli ultimi anni. Decimo al Giro nel 2011 e 2012 e decimo alla Vuelta nel 2010 e 2011, altro che scalatore improvvisato. Landa lo conosciamo tutti, è un capitano nei panni (sbagliati) del gregario, Moscon (impressionante anche per lo stesso Froome) sta soltanto confermando tutto quello che di buono si diceva di lui da anni nonostante la giovane età. Stesso discorso per López e Rosa, gregari affidabili ormai da anni. E ancora Kiryienka, che quando si divertiva ad andare in fuga centrava vittorie di prestigio come quelle del Monte Pora e del Sestriere al Giro d’Italia, oppure Kwiatkowski che a ventisette anni ha un palmarès da fare invidia a molti. Insomma, nulla di improvvisato mi sembra. Se metti dei capitani a lavorare come gregari, questo è il risultato. Un’altra polemica più che sterile, probabilmente povera, è quella che vede Froome inspiegabilmente in forma da una vita. Dal Delfinato ad oggi sono passati circa tre mesi e al Delfinato il britannico non sembrava così devastante, e infatti nella generale ha chiuso quarto dietro a Fuglsang, Porte e Martin. Stessa storia al Tour. Se lo ha vinto ovviamente doveva stare abbastanza bene ma è parso tutt’altro che brillante o dominante. Sui due attacchi di Aru alla Planche des Belles Filles e sul traguardo di Peyragudes si è staccato, per il resto si è limitato a controllare una corsa per niente imprevedibile con avversari non all’altezza. Al massimo il figurone lo ha fatto il Team Sky, perfetto come sempre, non di certo il britannico. Ad un mese dal Tour decide di partecipare alla Vuelta e il copione è rimasto tale e quale. Froome sembrava stare meglio ma non era di certo irresistibile, e infatti nell’arrivo in salita all’Osservatorio di Calar Alto si è difeso con le unghie e con i denti dall’attacco di Nibali dovendo poi concedere qualcosa sul Los Machucos una settimana più tardi. Il Froome meno dominante delle ultime stagioni ha portato a termine la tanto agognata doppietta, ecco qual è la verità. In salita non ha mai saputo fare veramente la differenza e più di una volta si è trovato a rincorrere. E diciamo la verità, i rapporti agilissimi che vanno tanto di moda oggi in gruppo e la tecnologia che tutto appiattisce hanno fatto tutta la differenza del mondo. Nelle prove contro il tempo rimane superiore agli altri uomini d’alta classifica, il resto nell’arco delle tre settimane lo fanno i suoi uomini. Ma non è finita, c’è chi gli dà addosso per aver fatto lo sprint a Madrid per difendere la maglia verde. Secondo quale logica avrebbe dovuto cedere così, come se nulla fosse, una maglia in un grande giro? Froome è diventato quindi un cannibale, roba che se vi sentisse Merckx vi taglierebbe la lingua. E per quanto mi riguarda, sia chiaro, Froome può risultare positivo ad un controllo anche tra due giorni, ma ciò non giustifica l’arroganza e la saccenteria di tanti nel puntargli il dito contro. Sono gli stessi che cinquant’anni fa l’avrebbero fatto con Merckx e sono gli stessi che lo rifaranno non appena arriverà qualcun altro in grado di dominare nelle corse a tappe.