
La prima delle cento volte del Giro d’Italia. Parte Secondaby Francesco Ricci · · illustrazione di Luca Gentile December 7, 2016
A piazzale Loreto, che all’epoca si chiamava rondò, parte in una notte di maggio il Giro d’Italia. È l’anno di grazia 1909, tanto caro ai Futuristi: da Milano a Bologna, poi Chieti, Napoli e Roma. Ecco il breve resoconto delle prime tappe che danno il via a un’avventura mai conclusa.
Prima tappa del primo Giro d’Italia: 13 maggio 1909
Milano – Bologna
397 chilometri
Albergo Loreto, in fondo a corso Buenos Aires. Centoventisette dei centosessantasei iscritti si presentano alla punzonatura: è il pomeriggio del 12 maggio 1909. Tutti aspettano l’arrivo della notte e con essa il momento di partire. Milano è un aggrovigliarsi di biciclette, l’eccitazione è come un dispaccio diramato in ogni dove: presto, i corridori stanno partendo, quello è il Diavolo Rosso, e quello lì il Pavesi. Milano nel buio si accende, tutto sembra una rissa in galleria, ma a Boccioni piacevano più i cavalli delle ciclo. Finalmente si parte: sono le 2.53 di giovedì 13 maggio e la lunga storia del Giro ha inizio. La partenza è in quel di Piazzale Loreto, che all’epoca si chiamava rondò. Gli scherzi della storia, al di là dei corsi e ricorsi: qui comincia l’epopea del Giro e qui finisce qualche decennio dopo una guerra civile, con tanto di cadaveri appesi a testa in giù. I corridori scalpitano, la folla strepita di gioia: una scia luminosa straccia la notte e questi dannati del pedale sanno che stanno scrivendo una pagina memorabile di una storia infinita. Una storia, quella del Giro d’Italia, che accompagna e riflette la storia del nostro paese. In molti casi è la storia con la S maiuscola a pedalare insieme ai corridori, al punto che nel microcosmo delle due ruote s’intravedono i mutamenti epocali del Novecento italiano e del nuovo millennio.
I fanalini scuotono la strada, i radi lampioni creano coni di luce fioca, ed ecco che i corridori srotolano da viale Monza per ritrovarsi in un attimo in periferia. Oltrepassano Sesto San Giovanni e alla media dei trent’allora superano Bergamo, Brescia, Verona, Padova, Ferrara per intravedere nel pomeriggio inoltrato il traguardo di Bologna. La strada, sempre punteggiata di folla, miete vittime celebri: Gerbi, l’amato Diavolo Rosso, cade per colpa di un bimbo che gli taglia la strada. La bici è distrutta. Nella sfiga, il Diavolo è fortunato: si trova vicino alla sede della Bianchi e perde poco più di tre ore per riparare la ciclo. Al controllo di Bergamo è già con i migliori. All’entrata di Peschiera del Garda è Lucien Petit-Breton a travolgere un gallo. Perde il controllo del mezzo, cade e si lussa la spalla. Inforca di nuovo la bici ma dopo un centinaio di chilometri deve ritirarsi. Anche Eberardo Pavesi è costretto al ritiro e andare all’ospedale: causa una brutta caduta, la gamba è ferita, come quella del Garibaldi. Bologna è una bolgia. A Porta Saffi la folla è in delirio e preme per entrare all’ippodromo Zoppoli. All’arrivo dei corridori il pubblico invade la pista e non si capisce più niente: chi è il vincitore? Qual è la classifica? I ciclisti sono risucchiati in un vortice bestiale fatto di mani e braccia che si levano al cielo e di urla che trasformano le parole in suoni intraducibili: riportare la calma non è affatto semplice. Finalmente il nome del vincitore, il primo vincitore della prima tappa del primo Giro d’Italia: è Dario Beni che pedala per la Bianchi e impiega quattordici ore e sei minuti a percorrere i quasi quattrocento chilometri alla media dei ventotto orari. E adesso due giorni di meritato riposo.
Seconda tappa: 16 maggio 1909
Bologna – Chieti
378 chilometri
Ore quattro e cinque minuti di domenica 16 maggio: nonostante il mattino debba ancora palesarsi, di fronte alla chiesa degli Alemanni una folla ubriaca inneggia ai corridori in partenza. Il più osannato è il Diavolo, che delle urla però se ne fotte. Lui pensa solo alla corsa, lui vuole vincere a tutti i costi. E allora via, giù per la Romagna in festa. A Cesena c’è la banda che suona al passaggio degli eroi, a Savignano si lanciano fiori e a Pesaro sono le bandiere a sventolare: il Giro è la festa dell’anno e il Giro, fuor di retorica, è la festa del popolo: donne, bambini, giovani, uomini e vecchi, tutti per la ciclo, la ciclo per tutti. Quando i corridori si affacciano all’ingresso di Chieti ecco il cannone che spara a salve. Gerbi si scuote e pedala come un forsennato, l’arrivo in leggera salita fa per lui. Ma all’ultimo chilometro la sfiga lo colpisce ancora facendolo cadere. Addio sogni di gloria: la tappa va a Cuniolo che precede Ganna, nuovo leader in classifica generale. Ora, tutti a curarsi le ferite, l’appuntamento è per martedì.
Terza tappa: 18 maggio 1909
Chieti – Napoli
242 chilometri
L’Italia rurale. L’Italia fatta di strade polverose e piene di buche. L’Italia che cuoce sotto il sole e i corridori che sembrano uova prive di guscio. Non c’è riparo in salita, con il mezzo che non ha rapporti adeguati e spingere su per Roccaraso a 1236 metri di altezza è una fatica immane. Ancor peggio la discesa: l’aumento della velocità fa impazzire il girare dei pedali e tenerli sotto controllo fa saltare tendini, giunture, nervi e pazienza. Ogni metro è un pericolo, le strade sono in condizioni disastrose e guidare la bici richiede un coraggio è proprio il caso di dire d’altri tempi. E poi ci vuole tanto culo, perché la fortuna non basta mai. Ganna il leader, ad esempio, fora quattro volte e quando finisce i palmer di scorta piange di rabbia. Isernia, Capua, Cassino: le strade fanno schifo, a conferma di un’Italia divisa in due, e tra i corridori c’è chi medita il colpo gobbo. Il treno, vacca boia. Alcuni corridori si fanno hobo per salire in qualche pancia di vagone. Li chiamano ben presto trenisti: alcuni di loro prendono il treno davvero, per tornare a casa però e dire basta a questo Giro impossibile. Si rompono forcelle, si fanno collette, si cercano palmer e s’impreca alla malasorte. Intanto però il Giro va avanti e davanti c’è l’ottimo Galetti in fuga solitaria, ed è subito sera. La folla lo circonda, lui è sfinito. Sembra un pesce finito in una rete di pazzi scatenati. I tifosi vorrebbero aiutarlo, in realtà lo frenano e Galetti si dispera. Rossignoli è alle spalle e poco prima del traguardo lo supera e lo batte. Rossignoli, quello che ancora ci sono i negozi di bici a Milano. Rossignoli, quello che finalmente vince dopo che al Tour dell’anno prima sul traguardo di Roubaix la folla lo aveva letteralmente trattenuto per farlo superare dall’idolo locale Petit-Breton. Rossignoli, quello che alla fine di questa pazza corsa arriverà terzo, ma che sarebbe stato primo se la classifica fosse stata a tempi e non a punti. Rossignoli, quello che a Pavia lo chiamano Baslott e chissà come lo battezzano qui a Napoli, questo piccolo grande uomo che vince dopo oltre duecento chilometri di strade impossibili e carogne. E adesso, il meritato riposo fino a giovedì.
Quarta tappa: 20 maggio 1909
Napoli – Roma
228 chilometri
È il venti di maggio. L’Italia è quella agreste che piace a Goethe. Ci sono i maiali sulle strade e poi le vacche, come in India. Ci sono ruderi antichi, abbandonati all’oblio. Ci sono le fattorie che cantano le canzoni delle sirene: i ciclisti si fermano ammaliati e trovano la frescura agognata e per un po’ smettono di mangiare la polvere e beati si dimenticano che la ciclo è una sofferenza che va al di là di tutti questi ulivi meravigliosi e di questi cavalli che galoppano liberi e di queste palme che fanno tanto Africa in giardino.
A Valmontone il gruppo si ferma e Ganna fa il furbo. Va avanti imperterrito e prende un vantaggio che conserverà fino alla fine.
La polvere non smette mai, nemmeno sotto il sole che tutto brucia. Alle porte di Roma i tifosi si fanno ciclisti e si mescolano a quelli veri. Il Giro è una corsa per pazzi, una cosa da matti: ventimila sono le persone ad attendere gli eroi al traguardo. La situazione è fuori controllo e le polemiche non si fermano più. Alcuni giornalisti dichiarano che la folla è ‘collettivamente stupida’ e la giuria, impersonata dal patron Cougnet, si difende chiedendo alle autorità la presenza di uomini, ‘tanti uomini per arginare le folle immense’. Luigi Ganna, muratore varesino, batte in volata Carlo Oriani, bersagliere di Cinisello Balsamo: vincere a Roma ha un sapore bellissimo. E di ciclo non se ne parli più fino a domenica, perbacco.