
Semplicemente Miguelby Francesco Ricci · · illustrazione di Luca Gentile October 26, 2016
Sono vent’anni che Miguel Indurain è sceso dalla bici. Tredicesima tappa della Vuelta, settembre 1996: Miguel si ritira e saluta tutti. Se ne torna da dove è venuto, in Navarra, la sua piccola terra. La fattoria di famiglia lo attende, del resto è sempre tornato lì dopo tutte le vittorie: cinque Tour di fila, due volte l’accoppiata Giro e Tour, il record dell’ora, un oro olimpico ad Atlanta e un mondiale, a cronometro ovvio. Grande Miguel.
Tutto semplice, senza particolari sussulti: la carriera di Indurain si rispecchia fedele nel suo modo di essere. Che è lineare, senza strappi, contadino fra gente contadina. José Miguel Echevarri, il suo fedele direttore sportivo, abita a pochi chilometri da Villava, il paese dove è nato. Anche Eusebio Unzue, il suo scopritore, abita lì vicino. Tutto ha un battito regolare nella vita di Miguel, è il suo cuore bradicardico che detta legge. Pulsa a riposo 28 battiti al minuto, contro i 60-70 di un cuore normale. Spinge in circolo a ogni contrazione mezzo litro di sangue. La capacità polmonare è di quasi 8 litri. E’ alto 1,88 e pesa 80 chili, per questo lo chiamano Miguelon.
Anche il suo modo di vincere è semplice. Straccia tutti a cronometro e poi gestisce la corsa con saggezza, senza mai strafare. Non ha l’impeto di Hinault, non ha la fame infinita del Cannibale. Piuttosto ricorda Anquetil, che corre allo stesso modo. Forse in salita è più forte del francese, nonostante la stazza. Poco importa. Indurain in questo è poco spagnolo, come scrive Mario Fossati, giornalista inarrivabile, che i corridori spagnoli li ha conosciuti da vicino: “Bahamontes, che Bernard Ruiz chiamava “el cabron”: si arrampicava a balzi sui costoni dei colli e dei passi e poi, nelle discese, si aggrappava ai freni, come un montanaro che precipita al ramo di un “barancio” (leggi, un pinastro sfottuto dal vento). Jimenez, stretto stretto, che pareva ritagliato da una striscia di cuoio: Fuente, due granelli di follia, un talento per la salita: Miguel Poblet, sprinter inarrivabile: Ocana, elegantissimo, di sangue caliente: i cui delicati polmoni avevano un bisogno estremo dell’ aria resinosa delle Landes, dove, abbandonata la Spagna, abitava.”
Miguel è un tipo calmo, con un sorriso che lo fa sembrare un bel tenebroso. Esordisce con la Reynolds, squadra spagnola che dopo qualche anno diventa Banesto. Le bici le mette il giovane Fausto Pinarello, pescando così uno dei suoi magistrali jolly. Per battere il record dell’ora, nel 1995, in Pinarello creano la ‘Espada carbon’, una bici che sarebbe piaciuta molto al futurista Marinetti. E’ una bici che ha fatto storia, nata da un’amicizia vera fra gli uomini della Navarra e quelli della Marca Gioiosa. E che continua tuttora.
Dopo anni di gregariato all’ombra di Pedro Delgado, Miguel decide che a ventisette anni è giunta l’ora di far vedere di che pasta è fatto. Nella tappa a cronometro che si corre da Argentan ad Alençon batte tutti, compreso Greg Lemond e Laurent Fignon, Pedro Delgado e Gianni Bugno. Indossa la maglia gialla e non se la toglie più per cinque lunghi anni.
Miguel scende dalla bici con il numero attaccato al telaio il 21 settembre 1996 a Congas de Onis, venticinque chilometri dall’arrivo della tredicesima tappa della Vuelta di Spagna. Ebbene sì, l’equinozio d’autunno è sempre un giorno un po’ triste: l’estate sta finendo e un anno se ne va, sto diventando grande lo sai che non mi va. Miguel scende dalla bici, semplicemente, e tutti si guardano intorno. E adesso che succede? Il Navarro sorride, la terra lo sta aspettando. C’è finalmente da rotolarsi nell’erba e respirare il profumo del grano. E bere un bicchiere di vino come si deve. Vamonos.





